Sunday, October 07, 2007

In Borgogna, il cuore di Francia e d'Europa che ha perduto la memoria

Weekend a Digione. Si mangia male. Come mi avevano avvertito, il cibo per noi popolani è mediocre e costoso. Tranne che i formaggi ovviamente. Per il resto, una cascata di panna su tutto, sulle zuppe, sulle torte salate, persino sulla carne.
Quest'oggi abbiamo fatto la Route de Vins della Borgogna meridionale, una bella coperta di tessere gialle e arancio stesa sulla campagna lieve, monotona, della Francia centrale. Solo in Piemonte c'è in Italia un paesaggio simile, perché l'Appennino è più brioso, più minuto e insofferente delle grandi distanze, e là le colline ostacolano lo sguardo, rendono ogni scorcio una piccola corte naturale. Qua i vigneti si stendono pigri all'orizzonte e di quando in quando un "castello" vi trova spazio: castello tra virgolette, perché si tratta di belle dimore nobiliari di tempi in cui più che difendersi dal nemico ci si preoccupava già di godersi la vita. Delle ville romanticamente ispirate ai castelli medievali insomma. Vicino a Nuits giriamo qualche tornante tra le vigne e mi casca l'occhio sull'uva abbondante e sontuosa. Mi fermo, salto giù dalla macchina, rubo un grappolo. Ha gli acini piccoli, blu scuro, dolcissimi. Li succhio svelto e un po' avido. Passano due ragazzini in bicicletta - appellons la police! - scherzano. Torno su in fretta, metto in moto e li rincorro, la police, la police! gli faccio eco dal finestrino mentre gli sfreccio accanto. Il sole ci bacia. E' tutto un oro e un vermiglio.

Molte chiese, poche messe. Alle sei vago per Beaune in cerca di una funzione, ma niente, nella cattedrale solo un paio di celebrazioni alla mattina. Per il resto, tante chiesette dimenticate, portoni chiusi, sbarrati. A venti chilometri da qui è nata l'abbazia di Citeaux, a quaranta Cluny: eppure... Il Signore perdonerà mi dico: questa terra ha dimenticato come si faceva a pregare molto tempo fa, quando hanno cominciato a sconsacrare i loro antichi luoghi di culto e a trasformarli in "monumenti nazionali", come recitano i cartelli tricolori (quando va bene) oppure in gallerie d'arte contemporanea e in negozi di pashmine, quando va male.
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Appunti di viaggio. Le case in Francia, come il cibo, parlano di un passato tormentato. Fino al Quattrocento architettura e gastronomia rispondevano tuttalpiù ai bisogni immediati: un letto, un tetto, un campo, un piatto di cibo. Si mangiava più o meno quel che si mangia in Germania, zuppe e arrosti pieni di grassi animali che scaldassero; si viveva in quelle graziose casette coi muri a colombage con l'ossatura in legno, come quella da cui è ricavato l'albergo da cui scrivo - così schiette, rustiche, accoglienti come erano i tempi medievali che le avevano partorite. Poi viene il Rinascimento, la Ragione che tutto ordina. C'è un grande auto-disciplinamento, le case cambiano stile e si fanno austere, signorili, fredde: cambiano i materiali, dal legno alla pietra grigia, cambia l'aspetto e l'intenzione, cambia lo spirito. La cucina è riformata dagli echi italiani, il cibo sofisticato che usa al di là delle Alpi; ma con gli usi e i materiali ancora germanici e un po' barbari a farle da sostrato (di qui l'abuso di panna). Da cucina per vivere diventa cucina per gustare, per apprezzare, per stare bene. Questa è la modernità francese, che ha qualcosa di traumatico e di brusco rispetto alla nostra dolce e gentile scoperta della "maniera moderna", sostenuta e ammorbidita dalle rimembranze del passato romano. Questa è stata la loro prima, fondamentale rivoluzione.

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