Thursday, September 07, 2006

Lezioni americane. Di scuola, e di tolleranza

L'America è anche quel posto dove accanto ai banchetti della Citizen's Bank che ti invitano ad aprire un conto e a pagare la stratosferica retta universitaria puoi trovare un mosaico di tutte le religioni. Ieri mattina si sono posizionati ordinatamente, sul grande marciapiedi di granito grigio di Comm Ave, uno dopo l'altro: tavolini con cartelli, opuscoli, bandiere, tappeti, libri sacri. Croci, stelle, lune, triangoli, arcobaleni.
Quando al momento dell'iscrizione mi era stato chiesto di cerchiare la mia preferenza religiosa in una lista lunghissima che includeva l'animismo e i culti eschimesi non l'avevo presa tanto sul serio, e invece. Ieri l'ho vista all'opera, l'America della nuova evangelizzazione, brulicante di vita, di opzioni, di libertà. Ebrei, luterani, battisti asiatici, chiesa dell'intervarsity, fratellanza cristiana unita, vita novis, induisti, cattolici, islamici. Sì, anche loro: "join the Islam!", dice il cartello con toni amichevoli e inoffensivi. Intanto Ahmadinejad chiede l'epurazione dei professori secolarizzati dalle scuole iraniane. Rivoluzione americana e rivoluzione islamica, buffo che tutte e due si chiamino nello stesso modo, una protesa al cambiamento, fertile, esaltante, progressiva, l'altra cupa e violenta, una purga, una pugnalata nel ventre.

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A mi chi chiede come siano le lezioni americane rispetto a quelle tenute in Italia, rispondo così. Scordatevi un professore che spiega con la la supponenza, l'autoreferenzialità, la profondità degli italiani. Scordatevi una massa di studenti che ascoltano, scrivono, passivamente rigurgitano. Non è così che funziona qua, non potrebbe farlo. Suppongo che sia perchè volenti o nolenti noi restiamo gerarchici e vassallatici, lasciamo sopravvivere l'ossequio e il timore dei ruoli. E un gigantesco complesso di inferiorità verso la nostra bella cultura e il nostro ingombrante passato. Molti dei miei docenti in Italia mal sopportano le interruzioni, sono sgarbati e sbrigativi. Molti si stupiscono dell'ignoranza della platea, la caricano di moralismo cattedratico. Penso alle lezioni di storia contemporanea, che pure restano tra le più belle che ho seguito. Alcuni addirittura chiedono agli studenti di non intervenire: che senso ha che un marmocchio appena entrato nella Cultura dalla porta di servizio dibatta con un professore con quarant'anni di ricerca e venticinque di insegnamento alle spalle?
Le lezioni americane sono un'altra roba. Un signore più o meno amichevole ma in genere molto ironico siede al capo di un grande tavolo, o sta in piedi davanti a due o tre file di sedie. Presenta contenuti e confini del corso con precisione, rapidità ed esattezza. Invita gli studenti a parlare, anzi, fa di più, assegna esposizioni, relazioni orali, discussioni a cui partecipare con assoluta frequenza. E i giovani statunitensi rispondono con assoluta naturalezza.

Questo pomeriggio il prof. Zatlin, a Comparative european fascism, dopo essersi seduto e aver tenuto una stringata introduzione al corso, ha chiesto a ciascuno di noi di fare un resoconto dell'estate. "Give an example of an authoritative experience you had during the summer". Sì, così. Parlare di qualcosa di autoritario che ci è capitato. Immagino cosa provocherebbe una simile indicazione sugli studenti italiani. Io stesso ho passato trenta secondi penosi, mentre uno alla volta i miei colleghi americani si esibivano in storie di maltrattamenti da parte dei superiori, di funzionari doganali, di camerieri sgarbati, a pensare a cosa raccontare a questo tizio che supponevo dovesse parlare di Hitler, Mussolini, Franco, Szalasi. Me la sono cavata con una battuta. Ma che infantili, ho pensato. Ci può essere una cosa più idiota? Cosa c'entra col tema del corso? Un corso difficile, poi...
Poi abbiamo visto il Trionfo della volontà di Leni Riefenstahl. Alla fine, quarantacinque minuti di interventi. Quarantacinque! Questo è bellissimo: le opinioni qui contano davvero. Anche se certe volte sono un po' piatte e banali, anche se il professore deve fare la doppia fatica di ascoltare e rielaborare quel che gli viene detto, fornire risposte, conferme, approfondimenti. La gente parla, lo fa con piacere e voglia di confrontarsi, semplicità e schiettezza. In compenso, il livello mi sembra più basso del nostro. Inutile nasconderlo. Non c'è grande sistematicità, l'impressione un po' fastidiosa è che le cose si fermino alla superficie. Ma per questi tipici pregiudizi europei voglio aspettare ancora un po'.

Sunday, September 03, 2006

Martha's Vineyard

Alle 23.30 il piccolo traghetto tocca il molo di Vineyard's Haven. Io e Giulia eravamo saliti sul ponte, nel buio, in mezzo a quella strana pioggerellina atlantica che ti si spruzza addosso come vapore, ma non avevamo visto niente, solo neri flutti. Un po' paurosi. Scendiamo intorpiditi. Ci sono dei taxi per noi ultimi viaggiatori, ma costano un sacco. Ketty parla col conducente dei bus, e ci mettiamo d'accordo per una corsa straordinaria. Noi quattro italiani, e Tim, un ragazzo australiano. Sembra uno di quegli autobus dei fumetti americani, massiccio, rombante. Le frasche battute dal vento e dai bordi del veicolo sembrano quelle di Jurassic Park. L'ostello è nei boschi, dopo venti minuti di sobbalzi. Non si vede niente, camminiamo nella notte sulla ghiaia, poi la casetta, è carina, una delizia, gentilmente illuminata, apparentemente deserta. Tim c'è già stato e apre la porta con una chiavetta. Niente receptionist, è ovvio, ci prendiamo noi gli asciugamani e le lenzuola. Tutto è molto green: meglio l'asciugamano della scottex; meglio chiudere l'acqua mentre ci si insapona; meglio un filo d'acqua mentre ci si lava i denti. Ketty e le altre si accomodano nel dormitorio maschile, in quello femminile c'è una coppia che fa l'amore. Poi li vedremo scendere: prima lui che va a farsi la barba perché lei dice che la punge, poi lei stessa, in lacrime, seduta sul bancone della cucina. La storia ci fa un po' ridere. Martha's Vineyard fa parte delle mete ambite dei bostoniani durante i week-end estivi, primaverili e autunnali. La prima, e più prestigiosa, resta ovviamente Cape Cod, che dall'isola dista poche decine di chilometri. Lì c'era la villa di JFK, di John John, di Ted, insomma di tutta la dinastia Kennedy. Martha's Vineyard e Nantucket, le due isole, restano in secondo piano, ma comunque d'agosto si riempiono di turisti. Qui sono stati Hemingway, Spielberg, John Belushi.

Il vento ha spazzato il promontorio tutto il giorno. Scogliere colorate, di grigio, di marrone, di arancio. E tutto quel verde! Al ritorno un ragazzotto di lontane origini italiane ci ha portato fino a Boston, due ore di passaggio. Lo scopo era meno nobile delle apparenze: ci ha provato con Giulia, e poi anche con Giorgia. Con me no: strano, vero?

Aggiungo qualche foto, anche se non si dovrebbe, anche se il racconto perde un po' il suo scopo.


L'ostello



Davanti all'ostello...



West Tisbury Road



Pittoresco



Scogliera a Gay Head


Il faro di Gay Head

Friday, September 01, 2006

Dalla stanza di Myles Standish Hall

Non è ancora come la descrive Tom Wolfe, la vita universitaria. Da ieri siamo nelle nostre camere, e tutto è ancora in rodaggio. Ci sono i freshmen, le matricole, che sono venuti qui per fare i vari check-in e seguire l'orientamento; mancano i sopohomore, i junior student, i senior, e via via risalendo l'ordinata gerarchia dell'università americana.
Sono a Myles Standish Hall, un palazzone degli anni venti adattato a residence studentesco cinquant'anni fa, in East campus. Sto in una singola all'interno di una suite con altri tre studenti, tutti americani. Ho visto i loro nomi scritti su un foglio incollato sulla porta, e vengono dal Maine e dall'Arizona. Tutte le camere sono cablate con la connessione a Ethernet e in gran parte del campus è attiva una rete wireless che consente di connettersi particamente ovunque. E' la nazione di internet.

C'è qualcosa di realmente vivo in questa civiltà americana. E' chiaro che nel dilemma irrisolto tra uguaglianza e libertà essa ha scelto quest'ultima. Certo, la legge garantisce uguaglianza di diritti, ma è solo un punto di partenza. La società è tutta modellata da questo sperimentalismo selvaggio e dinamico. Le cose però stanno già cambiando. "In Massachusetts è in atto una battaglia durissima sul sistema sanitario e previdenziale. Lo Stato tende a fornire garanzie maggiori, ma questo costa moltissimo, e non tutti vogliono che venga aiutato chi non lo merita". Questo ce lo ha detto un ex poliziotto a Martha's Vineyard, un'isoletta dell'Atlantico a un'ottantina di chilometri dalla città. Ora gestisce un'impresa di "porte e finestre", come lui stesso ha detto. Alcuni anni fa ha dovuto arrestare il cugino di Ted Kennedy, che guidava ubriaco (a Cape Cod, ovviamente), e si era rifiutato di farsi gentilmente portare la macchina a casa dalla polizia. Lo ha fatto perchè crede nell'uguaglianza della legge, ma il capo lo ha rimproverato. Lui ha dato le dimissioni. Intanto, la signora che ha preso con noi il ferry per tornare sul continente si lamenta perchè "questa è una nazione rozza e ignorante, lo dico dopo aver vissuto quindici anni in Inghilterra". Va "civilizzata".
Ecco, l'America cresce e invecchia, e dell'Europa prende le virtù, i vizi e le presbiopie. Il New England è negli States il posto dove forse oggi tutto questo si nota di più.