Thursday, March 29, 2007

Francia e identità: la lezione di Finkielkraut

Alain Finkielkraut, il filosofo ebreo francese che con Glucksmann e altri forma l'élite culturale della nouvelle droite, ha tenuto la settimana scorsa un intervento presso l'Università di Tel-Aviv. Il quotidiano Haaretz riporta una sintesi del discorso di Finkielkraut, il cui supporto per Nicolas Sarkozy alle presidenziali del 22 aprile, pur non ufficiale, è più che evidente.

Il multiculturalismo ha fallito, dice Finkielkraut. Gli Ebrei sono in pericolo in un paese "post-nazionale", che rifiuta il sentimento di Patria in favore della neutralità identitaria, perché allora minoranze più forti, come quella islamica, possono vincere con la violenza. E nel mirino non ci sono solo gli Ebrei, ma anche i Cristiani, attraverso "la semplicistica riduzione della politica in due forze opposte: la borghesia contro gli immigranti". Infatti, "in questo modo il Cristianesimo può essere costantemente attaccato, ma è proibito dire una sola parola dell'Islam, perché è la religione degli oppressi e se dici qualcosa contro di essa, allora sei un razzista".

Come riportato nell'articolo, Finkielkraut è stato oggetto di una violenta campagna denigratoria nel novembre 2005 per alcune osservazioni "scomode" sulla necessità di fermare i "selvaggi" che devastavano le periferie ("racaille", direbbe Sarkozy) anziché sforzarsi eternamente di "ascoltare" e "comprendere".
"Ecco perché Sarkozy ha successo: perché non usa un linguaggio politicamente corretto. Dice la verità, e la gente ascolta".

Saturday, March 24, 2007

Francia e identità: Bayrou alza il sopracciglio


"Basta con la nevrosi identitaria", dice il centrista Bayrou, intervenendo in queste ore nel dibattito scatenato in Francia da Sarkozy. Il candidato del centrodestra aveva parlato di "fierezza di essere francese" e di amore verso "la storia di Francia": suscitando prima le ire della sinistra ("ignobile!") e poi la spudorata scopiazzatura della sua avversaria socialista, Segoléne Royal, che si è accodata nell'invitare i Francesi a "conoscere la Marsigliese" e a "riscoprire il Tricolore". (Leggi).

Bayrou sembra seguire una tattica diversa. Non mostra scandalo, ma fastidio; non si arrocca ma si annoia (o finge di farlo). E' la noia postmoderna del centro (sinistra) europeo: e non a caso lo stesso Bayrou dice che questa attenzione identitaria "non assomiglia al Paese che conosco", ma semmai "alla società americana". Insomma, parlare di valori, di scelte, di identità, non è europeo, non è moderno.

E' quindi Bayrou il vero avversario ideologico della scintillante campagna sarkozista, (data la vacuità della proposta della Royal): e cioè l'europeismo bayrouiano, nel senso deteriore, burocratico, politicamente corretto, minimalista, che più che incazzarsi alza un sopracciglio; che in nome della "modernità" si dimentica l'attualità.

"E' come se i temi di Le Pen stessero invadendo lo spirito di quei due candidati. Ebbene, non invadono il mio", spiega Bayrou. Quello che forse gli sfugge è che quei temi hanno invaso lo spirito di alcune decine di milioni di Francesi.

Friday, March 23, 2007

Il berlusconismo latente

Un po' di tempo fa, Ferdinando Adornato e molti altri esponenti del centrodestra si sono trovati a Roma per parlare di Berlusconi, anzi, del berlusconismo. Il risultato dei loro incontri si trova sulla rivista di Fondazione Liberal in edicola in questi giorni, e a questo link è possibile leggere l'intervento di Adornato. L'analisi è interessante, ma un po' l'abbiamo già letta: il liberalismo popolare di cui parla con toni (giustamente) entusiastici Don Gianni, la sintesi tra continuità e innovazione, il superamento dell'opposizione laici/cattolici. Eccetera.
Quello che manca, però, a mio parere, nelle analisi un po' "sdraiate" e apologetiche della destra e in quelle apocalittiche e isteriche della sinistra è una lettura su una seconda conseguenza del fenomeno Berlusconi, che nel bene e nel male investe l'Italia dal 1994: il berlusconismo latente.

Seguendo la parabola politica ed elettorale di Forza Italia si potrebbe infatti dedurre che l'universo berlusconiano coincida con quello del suo partito, cioè grosso modo di un 20 - 30% dell'elettorato italiano; che sia fatto in prevalenza da casalinghe, pensionati e lavoratori autonomi; che si riveli soprattutto in certe regioni "azzurre" (Lombardia, Veneto, Puglia e Sicilia le più fedeli); che si ritrovi in occasione delle elezioni in grandi convention e sfondi azzurrini. Tutto vero, ma c'è dell'altro.Questo è infatti il berlusconismo "ufficiale", potremmo dire istituzionale se non fosse che l'aggettivo mal si accorda con lo spirito poco istituzionale e anzi un po' allegramente anarchico di Forza Italia. Il vero fatto politico e sociale che emerge in questo lungo decennio è invece che l'impronta di Berlusconi si riflette paradossalmente su quei settori di società e di opinione pubblica che berlusconiani non si dichiarano, e che Berlusconi alle elezioni non lo votano.

1. Prima di tutto bisogna analizzare il "berlusconismo non ufficiale" degli alleati. La fedeltà di partito impone agli elettori di An, Udc e Lega una scelta elettorale che può creare problemi seri a Berlusconi (che manovrerebbe più volentieri la scena politica con Forza Italia al 51%, come usa dire). Ma in realtà gli elettori di Casini non vogliono davvero avversare Berlusconi, e tantomeno quelli di An e Lega. Essi nutrono anzi in larga maggioranza una gran simpatia verso il leader della "coalizione", e per un altro apparente paradosso, non vorrebbero davvero che Fini, Casini, Bossi o Maroni o Calderoli stessero al posto suo. Perchè altrimenti quegli indici di gradimento così elevati, in tutti i sondaggi, per Fini e Casini, che poi elettoralmente sono battuti sonoramente da Forza Italia? E perché la corrente dei "berlusconiani" di AN (che curiosamente coincidono con i cosiddetti "finiani"!) continua ad essere maggioritaria nel partito rispetto all destra sociale? E', semmai, quella del composito mondo del centrodestra, una "risposta" dialettica e sorridente al Cavaliere, che permette tra l'altro che il berlusconismo si compenetri nel tessuto culturale italiano in modo più graduale ma anche più sottile e profondo: insomma, quello più efficace per far sì che la "rivoluzione" berlusconiana sia durevole anche dopo la scomparsa (politica) del suo fautore.

Non dovrebbe stupire, se leggiamo il comportamento sociale degli Italiani sulla base della loro eredità culturale cattolica. Il cattolicesimo, al contrario del protestantesimo, è fatto di grandi figure di mediazione, di gerarchie, di Santi e santini, di padri della Chiesa. In ambito spirituale, il santo è colui che, agostinianamente, raccoglie la fede dell'umile e la trasferisce al Padre (la intercessione). Nel suo alveo si è sviluppato il feudalesimo, un sistema che permette la fedeltà a più figure sovrapposte, per cui attraverso il mio signore io sono suddito del re - ovvero: con la mediazione del conte io riconosco l'autorità del sovrano. Sono figure - religiose o secolari - di cui il mondo protestante si è liberato da alcuni secoli e quindi poco comprensibili in una lettura "protestante" della politica: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna non esistono le "coalizioni", esistono i partiti con il proprio candidato.
Così, il berlusconismo del "popolo del centrodestra" si fa manifesto il 2 dicembre in Piazza San Giovanni: non c'è dubbio, quella piazza era per lui, per Berlusconi, anzi per Silvio, Silvio che "liberaci dai comunisti", Silvio che "basta tasse", Silvio che "ritorna, ritorna". Silvio: non Gianfranco, Umberto, Roberto, tantomeno Pierferdinando. Berlusconi può sperare che quei due milioni di cittadini voteranno poi tutti per lui - per Forza Italia cioé: ma è chiaro ormai che questo non accadrà. Non è accaduto per tredici anni, e gli alleati di coalizione hanno il proprio elettorato radicato e fedele. No, la piazza è tornata a casa con le proprie bandiere di partito, con le fiamme, gli scudi crociati, Alberti da Giussano, edere, tricolori, stelle a sei punte, stelle e strisce, croci celtiche. Un mondo variegato, plurale, anarchico, e spesso conflittuale e incerto. Ma latentemente berlusconiano.

2. In secondo luogo gli avversari. Sì, il berlusconismo vince e si diffonde nel momento in cui impone alla sinistra il cambiamento, più o meno profondo, dello stile e delle figure. Vince nel momento in cui impone Prodi come candidato dell'Unione. Il berlusconismo è tutto incarnato nella figura di Prodi, una figura modellata sul proprio avversario, sulla promessa di essere esattamente l'opposto del Cavaliere, più che nella proposta politica nei valori, nell'immagine, nella cultura di riferimento. Lo ha detto anche Francesco Verderami nell'ultima puntata di R come Retroscena, il suo nuovo programma su La7: i due avversari servono l'uno all'altro poiché è la loro dialettica che si è sovrapposta a quella precedente, partitica, della Prima Repubblica. Quello che la trasmissione mancava di aggiungere, però, è che questa dialettica l'ha imposta lui, Berlusconi, con due anni di anticipo sulla scelta dell'Ulivo di candidare Prodi. E' nell'impossibilità di "superare" Berlusconi con una proposta politica indipendente che si misura l'effetto del berlusconismo nel centrosinistra. (Forse una prima alternativa è rappresentata dalle liberalizzazioni di Bersani, che tentano di togliere terreno al centrodestra attraverso un'operazione mediaticamente affine, di taglio liberistico, ma vicina alla tradizionale ostilità della sinistra verso alcuni ceti sociali). Larga vittoria del berlusconismo è anche in quei settori mediatici nominalmente "di sinistra" ma che di fatto più o meno consciamente riflettono, anche nelle critiche feroci, il sistema berlusconiano: Mentana, Costanzo, Lerner, Santoro, La Gialappa's, i comici di Zelig.

3. E' però nel vastissimo campo dei "senza partito" che il berlusconismo latente dimostra la sua affermazione. Con "senza partito" penso non solo ai milioni di Italiani che non votano o votano scheda bianca/nulla, ma anche quegli altri milioni che decidono alla fine, senza opzione ideologica o fedeltà partitica: in pratica, la maggioranza, in entrambi gli schieramenti. Che essi poi votino a destra o a sinistra, non importa: la società italiana è latentemente berlusconiana, da tredici anni a questa parte. In che modo? Io lo riassumerei nella perdita di un certo vincolo resistenziale.

La prima Repubblica aveva funzionato sull'identificazione del "buon cittadino" con l'"antifascista", anche quando il fascismo davvero non c'era più da alcuni decenni, e sull'agitazione dello spauracchio fascista. Il sistema, che aveva un senso e forse delle fondate ragioni nell'immediato dopoguerra, si era fatto sempre più strumentale, lontano, inadeguato man mano che il tempo passava. Eppure continuava a funzionare: mi viene in mente una scena: quella di Paolo Pillitteri, allora sindaco di Milano, che nel 1991, di fronte alla protesta dei tranvieri cittadini grida: "fascisti, fascisti! squadristi! nazisti!". (Vedi). Allora quelle accuse - rivolte da Pillitteri a dei poveretti probabilmente in buona parte iscritti alla CGIL o alla UIL - avevano ancora un certo potere di criminalizzazione sociale: non razionale, emotivo. Cosa pensava la gente di te se qualcuno ti apostrofava come "fascista" o "nazista"? Ora, dopo 13 anni di berlusconismo latente, non ce l'hanno più. Dire "fascista", a parte nelle aule "sorde e grigie" delle facoltà di scienze politiche e nei collettivi studenteschi, non ha più un senso, è totalmente sorpassato. E non perché gli Italiani siano diventati fascisti, o perché i berlusconiani lo siano, anzi. I nostalgici sono sempre meno. Ora, semmai, se uno sente dire "fascista, nazista" pensa: che vocabolario "vecchio". Ed è con una certa noia crescente (non ostilità - semplice noia) che l'Italiano medio ascolta le cronache dei partigiani, le loro epopee guerresche, ne apprezza la figura, vi si sente emotivamente legato. Ciampi, berlusconiano latente, ha discretamente accostato alla figura del partigiano (proprio lui, Resistente!) quella dell'eroe risorgimentale, producendo di fatto un'equazione tra i due e finendo per desacralizzare il primo. In sostanza, il berlusconismo latente ha archiviato l'universo valoriale resistenziale. E con esso ha chiuso, in parte, una parentesi della nostra storia che forse si era protratta un po' troppo a lungo.

Allo stile indiretto, teorico, parlamentare della prima repubblica - concertazione, convergenze, unità sindacale, centralismo, repubblicanesimo, antifascismo - si è sostituito lo stile berlusconiano. Più "becero" se vogliamo, più "volgare" (senza caratterizzazione negativa del termine, anzi), ma anche più chiaro e leggibile: decisionismo, schiettezza, semplicità, battute e battutacce, sorrisi, sguardi, etichette e slogan politici. Ad un procedimento di affiliazione ideologico e razionalizzato si è sostituita una sorta di empatia tra il politico e l'elettore, che funziona molto bene nel caso del Cavaliere, ma che è stata presto emulata da tutte le altre forze politiche. Le vecchie parole d'ordine delle segreterie e dei comitati centrali, i documenti programmatici, le tesi congressuali, sono stati letteralmente spazzati via. Contemporaneamente, il berlusconismo latente esplodeva nella televisione e soprattutto nei telegiornali, con il berlusconiano latente Enrico Mentana (molto più che Emilio Fede) come capofila, con le sue notizie urlate, lo spazio alla cronaca, ai "fatti", la riduzione del parlamento a uno spazio tra i tanti della società italiana. La notizia per tutti è che questo stile è acquisito definitivamente, che non si tornerà, metaforicamente parlando, alla TV in bianco e nero che voleva il buon Ugo La Malfa.

Non è quindi nelle varie riforme e riformette, nelle "grandi opere", realizzate o abortite, in questo o quel provvedimento, che si deve misurare la cosiddetta rivoluzione berlusconiana. Come era naturale che accadesse in Italia, i risultati pratici del Governo Berlusconi si sono dimostrati al di sotto delle attese dei suoi sostenitori, ciò che ha provocato una prima, sottile delusione nell'elettorato della Cdl. Tuttavia, alla delusione è seguito un nuovo sostegno, anzi una nuova simpatia, più generica, ma, direi, anche più autentica, che viene sì dal 23,7% di Forza Italia ma soprattutto dai milioni che il Cavaliere lo guardano con un sorriso o con un ghigno, scherzandoci, sfottendolo, criticandolo, ridicolizzandolo. In questo Paese cattolico, "doppio", in cui a un messaggio manifesto si accompagna sempre un contenuto latente, emozionale, difficile a definirsi, è cresciuta un'affiliazione a Berlusconi che ha ben poco dello stile elettoralistico e americano di Forza Italia. E le vicende coniugali della "coppia presidenziale", con quell'infrazione più o meno volontaria della (sorpassata) consudetudine italiana di massima privacy delle figure pubbliche, quella reciproca invasione di campo tra Berlusconi e gli Italiani, per cui la lettera di Veronica entrava nelle case mentre l'occhio indiscreto dei cittadini si infilava nella villa di Macherio, ne sono la simpatica testimonianza. In quell'occasione, come in molte altre, il berlusconismo latente ha di fatto sorpassato il berlusconismo manifesto.

Wednesday, March 21, 2007

Monsieur Sarkozy allo Zénith

Domenica scorsa Nicolas Sarkozy ha tenuto un discorso ai giovani dell'UMP, il partito di centrodestra che lo supporta alle presidenziali del 22 aprile, allo "Zénith" di Parigi. A questo link il testo integrale, in francese. E' un discorso bellissimo, rivolto a una generazione disillusa, che ha il coraggio di presentare anche le asperità e le durezze del futuro, della vita, della politica. Scevro dai buonismi elettorali. E' un discorso fondato sulle sfide della libertà: libertà di aprirsi all'esperienza, libertà di rischiare e di sperare. Libertà di amare. E' un discorso che esprime una rivolta al minimalismo elettoralistico del "meno tasse" e "lotta alla disoccupazione" rispettivamente di destra e sinistra. Chiude forse in questo senso la pur gloriosa stagione degli 80s, pane yuppies e tagli allo stato sociale. Chiede e offre, invece, valori e idee. E' un discorso morale ma non moralista.
Forse è azzardato collegare tutto questo a un personaggio che sta (in tutti i sensi) ben più in alto di Sarko, Benedetto XVI (dando a Dio quel che è di Dio e al Cesare di Francia quel che è di Cesare).
Forse no.