Wednesday, November 29, 2006

Rovistando su internet

«Io non c'entro niente con il mondo di cui ho parlato per una vita. Un po' come molti intellettuali di sinistra.[...] Non sanno niente della realtà di cui si occupano. I vecchi comunisti cercavano di porre rimedio alla scissione, invitando noi giovani borghesi a mescolarci nelle mense degli operai. Era un rimedio ingenuo, illusorio. La sinistra è rimasta quanto di più lontano dalle pulsioni degli uomini».

Luigi Pintor a Simonetta Fiori, "la Repubblica", 9 marzo 2001.

Monday, November 27, 2006

Diario di viaggio / Il bagaglio

Siamo nel bus ora, mentre il cielo della East Coast si fa scuro, diretti verso New York. Lì cambieremo veicolo e stasera saremo a Boston. Abbiamo fatto tre giorni a Philadelphia. La città è una griglia ordinatissima di assi ortogonali, divisa in due da un grande viale che non a caso si chiama Broad Street. A est c’è la Philadelphia di Ben Franklin, un’orgia di mattoni rossi e campane della rivoluzione, proporzionata e dimessa come la volevano i Padri che qui hanno pensato e prodotto la dichiarazione di indipendenza. Viuzze strette, europee, dove il selciato si piega a dorso di mulo e i gatti riposano sui muretti assolati nel silenzio della domenica mattina. A ovest è cresciuta la Philadelphia degli affari e dei negozi, lussuosa e soffocante come quella Boston e a New York. In mezzo, come un mediatore involontario dei due estremi, sta la City Hall, un bel palazzo di fine Ottocento, che per il grande tetto tagliato a trapezio e la galleria che lo attraversa da una parte all’altra mi fa subito pensare al municipio di Trieste, solo che qui non c’è il mare, e la differenza si sente.

Hanno perso il bagaglio di Lorena. Siamo andati a ritirarlo alle tre, nel deposito della stazione dei bus, con in mente già le cose da fare in queste ultime settimane di scuola. La mia valigia arriva subito, e così quella di Miguel. Il trolley rosso di Lorena, coi vestiti, il lavoro dei prossimi quindici giorni, gli stivali nuovi, e la borsa nera col regalo per sua madre, no. Passano cinque, dieci, trenta, quarantacinque minuti nell’ufficio claustrofobico, la porta automatica che si apre e si chiude a ogni nostro movimento, mentre aspettiamo risposte dai due inefficientissimi impiegati, che vanno e vengono dal deposito con la stessa noncuranza e fiaccheria con cui te li aspetteresti, nello stereotipo, a girare per le vie del ghetto. No, sbiascica qualcuno, la valigia non c'è. Lorena è già pallidina di suo ma sbianca ulteriormente, noi con lei. Niente spiegazioni, niente scuse, niente di niente, aspettano che ce ne andiamo, che scarichiamo l’incombenza su qualcun altro. Ci siamo imbarcati sulla corriera successiva, diretti all’ufficio di New York. E ora siamo qui, sull’autostrada congestionata dal traffico del rientro, gli Americani delle città tornano in massa al lavoro pieni di tacchino e di purè al formaggio.

Sono a casa. Del bagaglio nessuna traccia, a New York stessa scena irritante. Forse gira per la East Coast, o sui monti Appalachi, in qualche stazione remota. Forse l’hanno rubato. Forse qualcuno l’ha aperto, e senza grazia ha preso il pigiama rosa e i vestiti e gli oggetti cari e li ha buttati in un angolo, cercando il portafogli o una collana. Forse Lorena lo ritrova. Ci sentiamo un po' traditi da Philadelphia, la città dell'Amore come dice il nome, dove i bagagli scompaiono nell'indifferenza e il bambino di The Sixth Sense vede la gente morta.

Wednesday, November 22, 2006

Bye bye Boston

E' deciso: il 25 dicembre si torna a casa. Per non tornare, almeno in questo gennaio, almeno nei progetti a breve termine. Speravo in un recupero in corner da parte della BU, in un posto in più nel budget universitario, e invece no. A un mese dalla partenza mi sento un po' come se il semestre fosse già finito, con un piede (riluttante) già sull'aereo, il pensiero alle faccende padovane, e la mia stanza torna ad assumere quell'aria provvisoria che aveva nei primi giorni, le cose che riempiono gli scaffali e i cassetti prendono l'aspetto di un'occupazione temporanea, pronte a tornare in valigia, il mio stesso passaggio per Boston, New England, USA assume i contorni un po' sfocati di una piccola parentesi nella vita di questa grande università. Non sarà così per quello che l'America mi lascia dentro.

Siamo a Washington, una trasferta di qualche giorno, approfittando del Thanksgiving. The Mall, il Campidoglio, i bianchissimi palazzi dell'Impero Americano, tutto molto bello e imponente e significativo. Ma anche tanto rarefatto, ci si perde nei viali tracciati sulla carta come tanti assi obliqui, gli spazi sono grandi, geometrici, razionali. L'abbiamo girata con le guance brucianti per il vento, camminando in cerca di una umanità che rimpicciolisce di fronte alle istituzioni fino quasi a sparire. E’ come se stessi partendo già adesso, da questa città vuota e gelida, per tornare nella piccola Italia. Che malinconia… questa nella capitale è davvero una notte triste.

Monday, November 20, 2006

Paradiso e inferno. A messa alla Marsh Chapel, e a Salem, Massachusetts, 2006

Sono stato alla messa alla Marsh Chapel, la chiesa del campus. Il rito è cattolico ma la chiesa multireligiosa, durante la settimana tre o quattro fedi diverse vi celebrano le proprie funzioni, e così anche la "nostra" liturgia romana ha preso le sembianze della Riforma, così linda, asciutta, dimessa. Violini suonano al posto dell'organo e del coro. Il Padre Nostro è recitato, ma anche il Santo e l'Alleluja. Niente immaginette sulle bianche pareti. L'ascesi è un po' protestante anch'essa: ogni domenica sera, alle dieci, i giovani riempiono la chiesa, e non ci sono le frasi sbiascicate controvoglia e quell'aria a metà tra il passivo e il disincantato che accompagna le messe nostrane. La gente risponde forte e chiaro, le mani si stringono e gli occhi si incontrano al momento della "pace", "peace with you" dicono convinti i cattolici della Boston University, e per la comunione prendono il pane e bevono il vino. Anche l'omelia ha qualcosa del fervore protestante, soprattutto se a tenerla è il prete più anziano. Un paio di settimane fa qualcuno si è commosso. "Siete la speranza di una nuova evangelizzazione, col vostro esempio di fede potete riconquistare l'Occidente. Ora chinate il capo e lasciate che impartisca su di voi una speciale benedizione". E' la chiesa di Benedetto, libera nella laica nazione americana, lucida, vitale, convinta.

A Salem, la notte di Halloween. Giriamo quel grande baraccone che è diventata la città di mare dove nel diciassettesimo secolo si tennero le famose esecuzioni contro le streghe. Ora ci vanno i turisti del Massachusetts vestiti da Bush e da peni giganti, che per gli Americani di sinistra è un po' la stessa cosa. Qui a Salem più che streghe si vedono carnevalate. Ma è davvero cambiata l'America puritana, sotto lo smalto delle bancarelle e delle mele glassate? Me lo chiedo quando in mezzo alla via intasata di gente si apre un cerchio di uditori, in mezzo c'è un tizio che sta in piedi su una cassetta di legno. Con un megafono, assistito da un amico, o un parente, legge versi della Bibbia, e invoca la punizione divina sui peccatori. Mi danno un foglio rosso scarlatto, a vignette, tipo quelle che leggi sul New York Times o sul Boston Globe della domenica. Solo che qui si parla di tutt'altro: «cerchi di essere un dignitoso cittadino, ti preoccupi dell'ambiente e della gente senza casa... pensi, se c'è un inferno, è fatto per gli altri. Ma la verità è che l'inferno non è un posto così esclusivo. Non devi essere un maniaco omicida o un violatore dei diritti umani per andarci. L'inferno è fatto da peccatori ordinari». Poco più in là, stessa scena, altro fanatico, altra cassetta: «pentitevi, finché siete in tempo!». Qualcuno gli grida frasi ingiuriose, molti lo ignorano. Qualcun altro annuisce, e applaude. Io penso alle suorine padovane, ad Assisi, ai chiostri rinascimentali, e misuro con un sorriso la distanza dell'oceano.