Siamo nel bus ora, mentre il cielo della East Coast si fa scuro, diretti verso New York. Lì cambieremo veicolo e stasera saremo a Boston. Abbiamo fatto tre giorni a Philadelphia. La città è una griglia ordinatissima di assi ortogonali, divisa in due da un grande viale che non a caso si chiama Broad Street. A est c’è la Philadelphia di Ben Franklin, un’orgia di mattoni rossi e campane della rivoluzione, proporzionata e dimessa come la volevano i Padri che qui hanno pensato e prodotto la dichiarazione di indipendenza. Viuzze strette, europee, dove il selciato si piega a dorso di mulo e i gatti riposano sui muretti assolati nel silenzio della domenica mattina. A ovest è cresciuta la Philadelphia degli affari e dei negozi, lussuosa e soffocante come quella Boston e a New York. In mezzo, come un mediatore involontario dei due estremi, sta la City Hall, un bel palazzo di fine Ottocento, che per il grande tetto tagliato a trapezio e la galleria che lo attraversa da una parte all’altra mi fa subito pensare al municipio di Trieste, solo che qui non c’è il mare, e la differenza si sente.
Hanno perso il bagaglio di Lorena. Siamo andati a ritirarlo alle tre, nel deposito della stazione dei bus, con in mente già le cose da fare in queste ultime settimane di scuola. La mia valigia arriva subito, e così quella di Miguel. Il trolley rosso di Lorena, coi vestiti, il lavoro dei prossimi quindici giorni, gli stivali nuovi, e la borsa nera col regalo per sua madre, no. Passano cinque, dieci, trenta, quarantacinque minuti nell’ufficio claustrofobico, la porta automatica che si apre e si chiude a ogni nostro movimento, mentre aspettiamo risposte dai due inefficientissimi impiegati, che vanno e vengono dal deposito con la stessa noncuranza e fiaccheria con cui te li aspetteresti, nello stereotipo, a girare per le vie del ghetto. No, sbiascica qualcuno, la valigia non c'è. Lorena è già pallidina di suo ma sbianca ulteriormente, noi con lei. Niente spiegazioni, niente scuse, niente di niente, aspettano che ce ne andiamo, che scarichiamo l’incombenza su qualcun altro. Ci siamo imbarcati sulla corriera successiva, diretti all’ufficio di New York. E ora siamo qui, sull’autostrada congestionata dal traffico del rientro, gli Americani delle città tornano in massa al lavoro pieni di tacchino e di purè al formaggio.
Sono a casa. Del bagaglio nessuna traccia, a New York stessa scena irritante. Forse gira per la East Coast, o sui monti Appalachi, in qualche stazione remota. Forse l’hanno rubato. Forse qualcuno l’ha aperto, e senza grazia ha preso il pigiama rosa e i vestiti e gli oggetti cari e li ha buttati in un angolo, cercando il portafogli o una collana. Forse Lorena lo ritrova. Ci sentiamo un po' traditi da Philadelphia, la città dell'Amore come dice il nome, dove i bagagli scompaiono nell'indifferenza e il bambino di The Sixth Sense vede la gente morta.
Monday, November 27, 2006
Diario di viaggio / Il bagaglio
Pubblicato da francesco c. a 7:16 AM
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1 comment:
Povera Lore!!! che schifezza quando ti perdono i bagagli!! comunque questa è Philadelphia e di WDC che mi dici? baci
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