C'è un'altra ragione davvero importante per alzarsi dalla poltrona e andare a vedere United 93. L'11 settembre resta, in Europa almeno, un evento paradossalmente non elaborato a livello di psicologia collettiva dalla maggior parte dei nostri concittadini. Paradossalmente, perché le immagini del disastro ce le abbiamo davanti agli occhi e ciascuno saprebbe descriverle nei particolari semplicemente attingendo dalla propria memoria.
Ma conoscere un evento tramite una successione di diapositive non basta. Queste rischiano di rimanere un argomento da fotoromanzo come i funerali di Diana o l'eruzione di un vulcano della Polinesia. Si sterilizzano. Per evitare le posizioni demagogiche e utopistiche che abbiamo visto a partire dalla vicenda afghana e che hanno toccato l'apice dell'isteria nel marzo 2003 prima di tutto bisognerebbe portare gli occidentali a riflettere sul significato dell'11 settembre. Distruzione. Terrore. Morte. Dolore. Lutto.
In psicologia, il lutto si affronta, si elabora, si celebra. Ci si torna coscientemente con la memoria per riviverlo e superarlo. Nel nostro inconscio collettivo, invece, di quel giorno restano pochi flash che perdono nitidezza, assaliti dalle superstizioni complottistiche sui presidenti che fanno evacuare gli ebrei e poi bombardano i grattacieli (e qui siamo fermi all'untore).
Così, con la manipolazione del passato, con la sua reinterpretazione che ignora ogni decente rispetto per la verità, i nostri nemici e certi collaborazionisti di casa nostra vogliono chiudere i conti con l'evento più traumatico del nuovo secolo. United 93 invece, con la sua sorprendente "laicità", con la sua asciutta neutralità, col suo approccio tecnico-documentaristico, lascia che i giudizi ce li facciamo noi, che è sempre meglio. Ma fa quello che tutti hanno rinunciato a fare, perché è troppo faticoso: racconta. Rinuncia ad ogni sottovalutazione.
Io penso che l'11 settembre segnerà davvero la chiusura di una fase intersecolare, che si dipanava attraverso i salotti degli illuministi francesi, la stabilizzazione delle diplomazie europee, l'aggressiva modernizzazione del resto del mondo, la comparsa delle macchine, e che cominciava il suo tramonto con le inquietudini della Grande Guerra, avviandosi al crepuscolo nei campi di sterminio e nelle "teste ficcate nei forni a gas in solitarie villette" di orwelliana memoria. I tempi della comodità e della sicurezza sono finiti. La dolce vita e i miracoli economici, i caroselli e le villeggiature... Persino il diritto a copulare senza rischi di infezione (quella magica parentesi trentennale tra la sifilide e l'aids): tutto finito. "La luce del moderno si spegne lentamente", scrive Berdjaev. Non è detto che ciò sia un male.
Prendere coscienza di questo tempo che cambia, di questo sipario che cala, o che si solleva, a seconda dei punti di vista, ecco: questo è un primo compito, un punto di partenza, quasi un dovere, di cittadini della nostra epoca. Sostituiamo per un momento il dogma della cittadinanza costituzionale con l'adesione al tempo presente, alla cittadinanza temporale. Sennò restiamo tutti ragazze del secolo scorso.
Saturday, July 22, 2006
Fine del moderno
Pubblicato da francesco c. a 3:25 AM
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