Elisa. Molto sorridente. “Spontanea”, secondo Marco, che l’ha conosciuta durante il viaggio a New York, dopo averla incontrata una volta quest’ultimo agosto. Le è piaciuta, anzi, si sono subito piaciuti, la comune radice romagnola dà a entrambi una cifra di carattere e di volubilità.
Elisa si apre subito, la scopri nel tempo in cui dalla pelle della pesca arrivi al nocciolo. Ha anche la faccia come una pesca, lieve, gentile, un po’ rotonda. Molto semplice, questo piace alla gente. A me. A diciotto anni finì il liceo a Montebelluna. I suoi litigavano, come ora, ma al tempo anche di più. “Mi ero stufata di vivere con loro, ed essendo la figlia maggiore anche di occuparmi dei loro problemi”. A metà agosto annunciò: “vado a Londra”. “A fare cosa?”, chiese sua madre. “A lavorare”. Due settimane dopo era in aereo. Tre settimane dopo un ragazzo italiano la trova seduta sui gradini di Trafalgar Square, a piangere. Si sta sfogando al telefono con un’amica, non ha trovato nemmeno una casa, dopo dieci giorni di ostello, sta finendo i soldi che le hanno dato, e di chiederne altri non se ne parla nemmeno, “piuttosto mangio cereali”. Il ragazzo sorride, le offre una mano, lei va a vivere per un po’ da lui, è una specie di accampamento, qualcuno si fa le canne e qualcuno sniffa coca, ma il posto nonostante tutto è sicuro. Lui ci prova, ma con discrezione. Lei declina, ma con discrezione. Restano amici. Elisa comincia la battaglia: nel giro di una ventina di giorni tappezza Londra di annunci, prova un paio di lavori come commessa ma la cacciano perché non capisce niente di quello che i clienti le dicono. Alla fine si sistema, trova un posto come cameriera in una catena di ristoranti eleganti e una casa in un sobborgo tranquillo là vicino. Lavora dodici ore al giorno, ma la pagano benissimo. La sera torna a casa e conta i soldi, le grosse mance, si butta sul letto e ride da sola, quanti soldi!, poi si mette le scarpe col tacco e fuori con gli amici. A volte non torna nemmeno a casa a dormire.
Elisa si è fatta un anno così, di evasione, di sperimentazione. Poi è tornata, si è iscritta a storia, è una brava studentessa ma lavorare le piaceva di più. E’ insofferente. L’università la ingabbia, la costringe a tornare indietro ai tempi del liceo e alle grandi studiate, stuzzica il suo senso del dovere quasi ossessivo. E poi lei detesta le macchiette e gli pseudo-intellettuali che la frequentano, non capisce i loro discorsi contorti e le loro bizantinerie, li disprezza in fondo, sono vecchi, vecchi. Ma anche li teme, ha paura di non esserne all’altezza. “Il primo giorno è stato uno shock, tutta quella gente che parlava di filosofi e politica”. Le ho fatto notare che non ha senso avere complessi di inferiorità, che è una ragazza con le palle, che questi secchioni vivono ancora con mamma e papà. “Ma sììì, hai ragione…”, fa lei. “E’ solo che…”, e attacca a parlare, e non la fermo più.
Una sera mi ha chiamato. “Dai Franci, usciamo, portami da qualche parte”. Avevo la macchina, sono passato a prenderla all’Arcella, il brutto quartiere padovano dove Elisa è rinchiusa in una palazzina grigia con la cancellata scura e il patio di mattoni rossi illuminato dai lampioni tondi. E’ giugno, l’aria tiepida entra dai finestrini abbassati, al semaforo due fidanzati si baciano a bordo del motorino. Andiamo in un locale che conosce lei, con Giovanni, un amico comune. C’è il karaoke. Elisa beve rum e pera per farsi coraggio e poi si esibisce, canta una canzonetta che sa bene, è piuttosto brava, ha una voce limpida e adolescenziale. Il tizio che mette su le basi musicali si prende una mezza cotta per lei, la vuole anche le altre sere, ma lei non ci pensa nemmeno, “e poi lui puzza, Franci, andiamo via”. Ride. Usciamo, sgusciamo tra i tavoli sistemati sotto le grandi tende, piene di Italiani che si godono l’estate italiana e ridono e fanno chiasso. Che si fa, dove andiamo… Qualcuno parla di una festa universitaria, dove?, a Legnago, sul grande prato del polo di Agraria. Okay. Via, con la macchina di Giovanni. La festa quando arriviamo è già finita, gli studenti vanno via ubriachi e pisciano sui bordi della strada. “Andiamo a vedere il mare?”, faccio. Elisa si illumina, “sì, daaai”, Giovanni no, è stanco, ma poi cede. La macchina ci porta a Sottomarina, che di giorno deve essere bruttissima, palazzoni venuti su come funghi nell’orgia di cemento degli anni Sessanta, ma la luna è dietro a qualche nuvola, la notte scura occulta pietosa il disastro edilizio; e quando scendiamo dalla macchina si sente il rumore delle onde, un po’ di poesia fiorisce anche qui insomma. E’ un mare bruttino e squallido quello della riviera veneta, ma chi se ne importa, è il nostro mare per stasera e a noi va bene. Tocchiamo l’acqua con la punta dei piedi, poi un guardiano di colore arriva con un bastone nelle mani, ci fa sloggiare. Sono le quattro e mezza quando montiamo in macchina. “Andiamo a Venezia a vedere l’alba?”, faccio. Non posso vedere gli occhi di Elisa seduta di dietro ma io so che nel buio stanno brillando. Prima che lei possa rispondere ci pensa Giovanni a cassare il progetto, “sono stanco ragazzi, scusate ma ho avuto l’esame, dai”. Ha ragione, è lui che guida. Si torna a casa, a Padova, una città che Elisa mal sopporta, ed è un’antipatia schietta e immediata. Scendo dall’automobile per primo, la saluto.
Elisa mi sorride. Lo farà anche domani. E questo è bello.
Wednesday, January 10, 2007
Elisa
Pubblicato da francesco c. a 4:33 PM
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2 comments:
...e lo sapevo che avevi un blog...naah, non ti perdo, ti ritrovo sempre, come ti ho trovato la prima volta senza nessun recapito;)
http://alessiasophie.spaces.live.com
hai visto. internet è piccolo tutto sommato. come gli autobus di trieste...
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