Wednesday, October 11, 2006

New York.




Chinatown, mezzogiorno. Metto piede sul marciapiedi grigio d’asfalto e di sporco. Il bus ci vomita in mezzo alla via, senza riguardo. E’ Canal Street, e sembra un canale davvero, un canale veneziano intruppato di turisti, di venditori ambulanti, di macchiette, di popolaccio. La via è lunga, segue le dolci colline che in un tempo remoto segnavano coi loro declivi Manhattan e che ora soffocano sotto eserciti di taxi giallo scuro. Le puoi vedere se guardi in lontananza, verso un improbabile orizzonte: perché New York è una città dal respiro verticale, non è facile spostare gli occhi dai palazzi che crescono verso l’alto. Con la valigiona mi faccio strada in mezzo alla folla, “the folks” come dice Sally, l’amica della Anna. Mi tornano in mente ora, le parole snob dell’elite ebraica newyorkese. Spinte, grida, biancheria sui balconi, scritte bilingue – ma anche monolingua, perché no, cantonese ovviamente, a Manhattan ormai vivono trecentomila cinesi, chi li ferma più. Solo un secolo e uno sputo fa erano gli ebrei quelli che si accalcavano negli slums della midtown, che sbiascicavano il loro yiddish mentre il jazz fermentava dentro al crogiolo delle razze e delle culture.
“No Francesco, non è il meltin’ pot – mi ha rimproverato Carlos, ecuadoregno, collega alla BU – quello è un concetto novecentesco, vecchio, superato”. Altro che crogiolo, al massimo ora ci si fa una pizza. “Sì, l’American Pizza. E’ il nuovo modello di integrazione statunitense”. Che sarebbe? “C’è una pasta comune, una base uguale per tutti, e poi ognuno aggiunge quello che ha, senza cancellare le identità rispettive – e i rispettivi odori – solo sommandoli”. Come una pizza americana. L’integrazione del Ventunesimo secolo insomma è più che altro una convivenza neutra e acritica, una coabitazione senza contaminazioni, tollerante, molto competitiva.

Il concetto mi piace, Carlos ha ragione, guarda come cambia la città ora che finalmente esco esausto da questa Chinatown sozza e puzzolente. Sbarco in Upper East Side, il quartiere dei vip mi dicono, ma l’ostello sulla mappa è un po’ troppo Upper, quasi all’angolo di Central Park; pochi vip dunque, semmai un residuo di borghesia ormai in fuga da questi lidi, e dignitosi isolati di verde e di grigio e di rosso scarlatto. Molti neri per le strade, poco più in là cominciano Harlem e Bronx, un altro mondo, a me sconosciuto come alla maggior parte dei cittadini del centro.

La mattina era cominciata con un sussulto drammatico. La sera prima, a Boston, meeting in birreria, tutti insieme noi del gruppo degli studenti internazionali: “allora, pronti alla fermata della metropolitana alle sette precise, anzi no, facciamo sette e cinque, così abbiamo il tempo di raccattare una mezza colazione in mensa”. L’autobus per NYC partiva alle otto, il tempo di attraversare la città con la T line (la lentissima metropolitana bostoniana) e di essere in stazione puntuali. Mi raccomando, mi raccomando, ci eravamo ripetuti vicendevolmente.
Risultato: alle sette e dieci del mattino arrivava Lorena, alle sette e quindici Carlos ma si dimenticava il biglietto in camera, e tornava a prenderlo. Alle sette e venticinque spuntava Buket, di Solenn nessuna traccia, poi apprenderemo che era partita alle sei e cinquantacinque col terrore di perdere il bus. Alle sette e quaranta la mia sveglia esausta suonava un’ultima volta, mi sveglio di soprassalto, vedo l’ora e impreco, salto su dal letto come una molla, mi infilo la maglia e esco dalla stanza di corsa senza neanche fare pipì, col trolley che mi rumoreggia dietro come un vecchio vagone. Nella hall del palazzo decido di fare l’upper class man e chiedo al portiere di chiamarmi un cab, please. Perso l’autobus: il taxista corre veloce ma non abbastanza. Lorena Carlos e Buket sono già in viaggio, nervosissimi. Hanno lasciato il mio biglietto allo sportello della compagnia, per convincere le signorine hanno inventato una storia drammatica di coincidenze perse e di guasti alla metropolitana. Io arrivo e rovino tutto: “ah ah, scusatemi, quando non si sente la sveglia…” Prendo il bus delle otto e mezza. Appena si accendono i motori e il veicolo fa cinque metri mi arriva un sms da Miguel, il grande assente: “wait 4 me i’m coming”. Bye bye, Miguel. Che disastro.

Siamo arrivati a New York alla spicciolata, come un’allegra e discreta invasione, ovviamente del tutto inosservata in un’isola che ogni giorno di invasioni ne sopporta a centinaia, migliaia. Abbiamo guardato tutto il possibile in soli tre giorni, scivolando dalla upper alla lower Manhattan, dalla quinta strada a Soho, dall’Empire State a Ellis Island, un giro molto turistico, così, per farci un’idea. Io ho un’impressione netta, e cioè che New York e l’America vivono due esistenze separate, sono come una sfera che ne contiene un’altra, o come gli anelli delle olimpiadi che si intersecano ma non si tangono. La grande nazione americana ha fornito solo la pista di lancio per una città che è un sedimento comune dell’Occidente, del mondo, di tutti noi. Svettano le bandiere a stelle e strisce sopra l’entrata dei grattacieli, ma chi se le fila, New York guarda a se stessa e al proprio mito meritato, alla propria epopea scintillante e polifonica, alla vocazione cosmopolita che la distingue dal severo e compassato New England al quale, ci tiene a ribadirlo, non appartiene. In autobus una vecchietta mi chiede da dove vengo: Italia, rispondo. E lei? “California”, fa. Sì, è sbarcata qua ventitré anni fa e non se n’è più andata. Quando parla di Manhattan le brillano gli occhi: “overwhelming”, che significa schiacciante, ma a lei piace, è schiacciante questa città che in un giorno ti offre tutto, che si apre come un grande pomo dorato. “The roughest city”, la città più rude, più sgarbata, aveva detto con un certo rimprovero Michael, americano del Tennessee – del dolce, languido, profondo Sud. E’ vero, a New York non ci sono le buone maniere del resto degli States, la gente parla veloce, è scettica e imperturbabile. Come mi scrive Anna, che la Grande Mela la conosce meglio dei newyorkesi: "è cinica, diretta, indipendente e incoerente... sporca, a volte puzzolente (8 milioni che vivono in un isola...!!!!), è simpatica e antipatica, è New York, dal barbone alla lady".

Sì, c’è un certo sadomasochismo in questi newyorchesi che si lasciano sedurre e schiacciare, che soffocano nel caos e nel traffico, ma anche nelle mostre, nei concerti, nelle parate.
E sopra a tutti, gigante, maestoso, Central Park…

2 comments:

Anonymous said...

Hello my darling! vedo che non hai perso le buone vecchie abitudini di svegliarti tardi e di perdere autobus XD e vedo che c'è anche qualcuna come me, ora non ricordo il nome, che è partita prima con la metro per paura di perdere il bus... brava ragazza! XD
Comunque, vedo che ti sei divertito ed entusiasmato, ma me ne parlerai meglio quando ci troveremo su Msn
Baci!
PS ti rendi conto che fra un mese ci vediamo?! che figo!!

Anonymous said...

Hi there! Cristiano non è quello che conosci tu! ho grandi novità dell'appartamento! baci