Laura. Nel complesso non è male. E’ una questione di come la prendi, e di come lei decide di prenderti. Se accetti il suo nervosismo impersonale e le sfuriate episodiche le cose possono funzionare. Chiudi un occhio, chiudili entrambi, sorridi. A me piaceva che con quel suo modo brusco e sfrontato portasse a galla le tensioni e i rancori e in questo modo li esorcizzasse, li spazzasse via con una manata. Era un residuo di vitalità in una gioventù priva della voglia di litigare. Il primo scontro lo abbiamo avuto un paio di settimane dopo l’arrivo. Più che uno scontro è stato un fulmine a ciel sereno, un temporale estivo. Così violento, così inutile, così passeggero. Lei si è arrabbiata per la questione del ristorante, della colletta per la festa, del fatto che, insomma, del… a dire il vero non sono sicuro di aver capito perché. Quando gliel’ho chiesto si è arrabbiata ancora di più e mi ha detto che “Francesco, proprio non capisci”. Solleticava la mia insicurezza con le donne, quel senso ruvido di inadeguatezza, di sentirsi fuori posto. Ho pensato che ce l’avesse con me, che fosse qualcosa di personale. Ma non era così. Quando gridava gli occhi le si arrossavano, vedevo che aveva voglia di piangere. Poi mi è venuta a cercare, facciamo pace, ha detto. Era chiaramente una valvola di sfogo, una breccia di rabbia e di rivolta, che si è aperta in una città che, forse, non le è mai piaciuta.
Boston è troppo fredda, dice. "La gente non ha davvero voglia di fare amicizia, sono solo molto gentili”. Lei l’ha presa in modo strano, questa trasferta americana, come una parentesi di distrazione, un’evasione un po’ disordinata. Lo dice: "è la mia terapia". Chissà.
Da quando è arrivata ha avuto tre o quattro uomini nel suo letto. Con uno ci ha fatto l’amore. No, no, che amore, sesso, solo sesso: “io l’amore lo faccio quando ci metto il cuore”. Uno solo, un californiano. Lei aveva bisogno di un po’ di divertimento, lo ha conosciuto in metropolitana, hanno bevuto e sono andati a letto insieme. Poi lui è scivolato via, quando sui rami degli ippocastani di Bay State Road hanno cominciato a cantare gli uccelli e la via ha preso contorni più definiti, mentre il cielo schiariva. A lei non è piaciuto molto, ma non importa, va bene così.
E gli altri? Amici, dice. Ci hanno provato? Sì, tutti, dice. Lei c’è stata? No, dice. Non è quel tipo di ragazza. Erano tutti residui di feste e bevute, ospiti di una notte che passavano per la stanza-ostello e che lei ha voluto non lasciare sul pavimento. Ma hanno solo dormito, e quando allungavano le mani, “non è proprio il caso”, diceva Laura; e loro, nel buio, si giravano dall’altra parte, rassegnati. Le piace fare la sorella, “fratello” e “sorella” sono parole che usa spesso per magnificare le sue amicizie veronesi. Ci crede, anche se esagera. Suo papà se n’è andato in modo brusco, non nel senso che è morto, nel senso che l’ha lasciata là, sulla strada, o quasi, con un fratellino e una madre fragile. Lei si è dovuta reinventare. E i suoi amici sono diventati un nuovo nucleo, una famiglia allargata. Fratelli e sorelle. Come l’hai presa? Cosa, risponde. Di tuo padre… Ah, dice, me lo sono lasciato alle spalle. Non me ne importa più niente. Sto bene ora. E’ semplice, lui è un bastardo e non ci merita. Ma noi andiamo avanti benissimo senza di lui.
Laura quando arriva alla mensa cammina svelta, nervosa. E’ alta, la si vede da lontano. Saluta tutti, ci tiene a sorridere sempre. L’altro giorno Daniel, lo spagnolo, le ha chiesto se stava meglio. Meglio? Meglio di cosa?, ha risposto lei. Meglio di ieri sera… dice lui. Laura ha sorriso impaziente: ma stavo benissimo ieri sera. Sto sempre bene, io! Oh, sì. Daniel è stupito. Sussurra: non mi sembra proprio… Ma Laura è lontana.
Tuesday, October 03, 2006
Diario di viaggio / Laura
Pubblicato da francesco c. a 5:01 AM
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